In occasione della sua partecipazione come speaker a Go Beyond abbiamo incontrato
Alexandre Crivellari, Director of Medical Units di Santagostino
Se potesse sinteticamente raccontare quello che abbiamo vissuto e quello che ci aspetta, quali sono secondo lei gli aspetti principali da mettere a fuoco?
“Sinteticamente” sarebbe davvero complicato raccontare gli ultimi due anni di storia, quindi mi limiterò a ricordare alcuni punti salienti della discussione pubblica che abbiamo avuto nel corso della pandemia.
Nel primissimo periodo le notizie che arrivavano da Wuhan uscivano dalla cronaca estera per entrare nelle sezioni nazionali e poi in quelle locali. Parlavamo di Codogno, della “coppia di cinesi allo Spallanzani” e del paziente zero. Era il periodo delle fughe: quelle di notizie (le bozze di DPCM trapelate alla stampa) e quelle di persone (le masse alla Stazione Centrale di Milano).
Poco dopo è iniziato il periodo della crisi più profonda: dalla Lombardia come epicentro della pandemia in Italia, all’Italia come epicentro della pandemia in Europa, alla situazione mondiale. Questo era il periodo dei DPCM serali settimanali in cui si annunciavano le graduali chiusure (dei territori, dei settori produttivi) e si discutevano tutte le contromisure possibili: avevamo i guanti obbligatori nei supermercati (da indossare sopra ai guanti portati da casa) e avevamo le sanificazioni dei marciapiedi, avevamo le indicazioni sulle mascherine (“quelle chirurgiche non funzionano, servono almeno le FFP2), sui giovani immuni dalla forma grave della malattia, sui tamponi inutili da fare sugli asintomatici.
Poi è iniziato il calo della crisi insieme a una parvenza di controllo della situazione: i contagi e i morti sono iniziati a calare e l’arrivo dell’estate ha portato una prospettiva diversa. Si parlava di Immuni, della privacy, del testing-tracing-treatment da fare. Non si è mai parlato troppo di scuola. Poi, la discussione si è sviluppata fino agli eventi più recenti: dai sierologici ai tamponi, dai molecolari agli antigenici, dalle diverse classi d’età a cui somministrare AstraZeneca (ricordo il periodo in cui era indicato “solo agli under-40”) alle diverse preferenze sui vaccini (o non-preferenze).
Ecco, “sinteticamente”, credo che l’aspetto principale da mettere a fuoco sia stata una comunicazione che in due anni ha avuto un fil rouge non banale: la mancanza di dati fattuali su cui discutere. Se dovessi identificare un solo elemento sempre presente in ogni fase di crisi della pandemia, discuterei di come i cittadini (e non mi riferisco a nessuna nazione in particolare) non abbiano avuto la possibilità di organizzare le proprie comunità sulla base di dati oggettivi, chiari per tutti. Le mascherine chirurgiche non erano inutili nella prima fase pandemica: erano poche. I tamponi non erano inutili, erano pochi. Ma l’informazione è stata incanalata in maniera differente.
Il futuro che ci aspetta sarà impietoso non tanto nei “pericoli” general-generici che ci aspettano (nuovi virus o nuove epidemie) in quanto tali, ma nella nostra capacità di reagire (o meglio, pre-agire) come comunità a fenomeni che:
Che ruolo ha avuto la tecnologia e quali competenze digitali occorrono oggi?
Per dirla semplicemente, la tecnologia “c’è dentro fino al collo”. Basti pensare alle discussioni (giustissime) che si sono generate intorno allo sviluppo di Immuni sul tema privacy e che poi si sono distillate nella struttura del Green Pass per come lo conosciamo oggi (ricordiamo che è uno strumento pensato per fornire informazioni sullo stato di salute -e vaccinale- della persona senza fornire certificazioni specifiche, in un’ottica di zero-knowledge information).
Altri esempi: le competenze tecnologiche ci hanno permesso una vera rivoluzione di processo e di prodotto nella ricerca farmaceutica e nello sviluppo di nuove categorie di vaccini, così come avrebbero potuto darci una pre-allerta sulla sintomatologia da Covid-19 sulla comunità (per fare un esempio: l’implementazione di una struttura solida di classificazione delle diagnosi a livello territoriale avrebbe potuto, magari, informarci di un aumento statisticamente significativo dei casi di polmonite a dicembre 2019).
Oggi le competenze digitali più urgenti mi sembrano essere quelle relative all’ingestione e all’utilizzo (oserei aggiungere: alla comunicazione) di quanti più dati strutturati possibile. È il tema dei Big Data e dell’analisi dei dati in generale (quindi parliamo anche di competenze in statistica e in architettura dei dati), ma è anche il tema del Machine Learning sulla predittività di questi e dell’AI come supporto decisionale al personale clinico. Su quest’ultimo tema potremmo poi aprire una parentesi in merito all’inevitabilità di questa necessità digitale dato il calo drammatico di professionisti umani nel settore medico (parlo del crollo futuro di medici e infermieri disponibili sul territorio) ma andrebbe gestito come capitolo a parte.
Dal suo punto di vista, quale è il maggiore trend destinato a crescere nel comparto del digital health?
Se prendiamo come dato di fatto il crollo del numero di professionisti del mondo della salute disponibili sul mercato (e lo è), non ho dubbi sul fatto che a crescere saranno quei processi che si affideranno al digitale nella gestione di tutto ciò che non è ambiguo. Traduco: dell’utilizzo dell’intelligenza artificiale come strumento sempre più presente nei processi di diagnosi, dell’uso della telemedicina, di percorsi paziente strutturati e affidati meno a esseri umani e più ad algoritmi corretti.
Mi piacerebbe, ma questa è più una utopia personale, aggiungere alla lista dei prossimi trend rilevanti quello dell’interoperabilità dei dati, che vedo come un diritto del cittadino-paziente ad avere in un’unica interfaccia tutte le informazioni di cui ha bisogno per prendersi cura della propria salute. Oggi il ventaglio di informazioni di cui la singola persona può disporre esiste su supporti che non comunicano fra di loro e che, di conseguenza, non possono interagire per fare l’interesse del paziente nel suo percorso di salute (per citare due ambiti elementari che gioverebbero di questa impostazione mentale: il mondo della prevenzione e della diagnosi precoce e quello della compliance terapeutica dei pazienti). Tuttavia, sono conscio del fatto che su questo tema la discussione pubblica è ancora a un livello estremamente acerbo.